domenica 14 settembre 2008

La festa meno divertente del secolo


E alla fine c'è stata. L'orrida festa di compleanno che da mesi e mesi tutti aspettevate con impazienza - tutti tranne me - si è svolta ieri sera in un tripudio di guadio e felicità.
Per chi si fosse perso qualche passaggio, la festa in questione era il dicottesimo più pessimo della storia, ed era stato presentato nel seguente modo:
- inviti su cartoncino rosa dati a maggio, in modo che tutti ci tenessimo liberi per l'ottimo 13 settembre
- accurata descrizione della location che, per la modica cifra di 8000 euri - mi pare - doveva offrire: la location essa stessa, il dj, il buffet, la cena con tovaglie uazzamerica e argenteria, le luci da disco, il servizio dei camerieri e, uditeudite, dei televisori al plasma che, circondando la sala da ballo, avrebbero proiettato a ciclo continuo un filmato con le foto della festeggiata in questi passati 18 anni.
- gentile richiesta da parte della festeggiata essa stessa a non vestirsi in lungo, perchè il lungo doveva averlo solo lei: extra budget c'era infatti anche la lavorazione del vestito sotto suo disegno.
In tutto ciò, io ero costretta ad andare per non abbandonare la CompagnAmber e la Amicadibanco al loro destino. Per fortuna - o la serata sarebbe stata davvero intollerabile - riesco a strappare un invito anche per l'UomoKiwi, che rinunica persino ai DikDik pur di accompagnarmi e si presenta in vico dolcezza, dove io mi stavo preparando, con il suo solito ritardo e un completo indosso. Urgh. Ma così dev'essere, mica è colpa sua.

Attraversiamo a piedi lo spazio che ci divide dalla location della festa, attorniati da sguardi leggermente stupiti: tutto intorno a noi, è NotteBianca.
Giunti in prossimità della location, io mi trasformo definitivamente in ciò che possa più assomigliare a me travestita da albarina: ovvero, mi toglo i dottormartins e mi metto le ballerine.

Entriamo. Io, l'UomoKiwi, l'Amicadibanco, la CompagnAmber. Ci registriamo al guardaroba e lasciamo gli zaini: in tutto questo, la festeggiata gira in visibilio che sembra un yiddish mome il giorno del matrimonio di suo figlio e i di lei genitori fanno gli onori di casa e scattano foto come se dovessero fare un book fotorgafico (o dubbio amletico: forse è esattamente quello che stavano facendo). Se nella festeggiata sono in quattro anni riuscita a trovare qualche lato positivo, sono assolutamente convinta che i di lei genitori non ne abbiano: alla millesima foto del padre, puntata sulle gambe dell'Amicadibanco (con la scusa dei tacchi, oh, non ti ho mai vista così elegante!), non riesco ad evitare di fulminarlo con lo sguardo. P'cato. Non l'ho più visto.
Ci invitano ad accomodarci al piano di sotto: scendiamo agilmente le scale e ci troviamo in un corridoio con vari tavolini di buffet in allestimento. Sempre muovendoci in branco, andiamo a salutare le poche amiche conosciute - tra cui l'ottima Karatega che correndo sui tacchi si è sfasciata il ginocchio già sfasciato di suo ed era seduta per terra senza scarpe - e parlottiamo a lungo, cercando di evitare ogni possibile contatto.
L'arrivo dei camerieri ci costringe a tornare nel corridoio, dove ci viene offerto un ottimo aperitivo - smangini non malvagi, ma strettamente analcolico (succo o cocacola?) -.
Dopo le mille ore di aperitivo, aspettando che arrivasse gente che non arrivava e penso sia continuata a non arrivare, parte il gossip sfrenato sugli altrui vestiti, che era anche l'unica cosa che si potesse fare oltre ad affogarsi nel bagno.
Vengono in particolare notati un vestito rosso con spacco posteriore sulla schiena verso l'infinito e oltre, un vestitino grigio - neanche tanto brutto di suo - ma completamente trasparente, che lasciava vedere senza tema di smentita delle orride mutandazze a fiori, e le cravatte salmone che sembra spopolino tra gli albarini fighetti. C'è anche da dire che quelli senza cravatte salmone erano peggio.

Finalmente appare la festeggiata, stressata che sembra che dalla festa dipenda la sua condanna a morte. Il vestito - vi ricordo, da lei disegnato e fatto fare su misura dalla sarta, eh - è oggettivamente oribbile. Monospalla e con un taglio storto molto accattivante, indubbiamente, ma lilla. Lilla! Il tutto corredato da una pettinatura molto alla greca e brillantini sparsi in ogni dove. Tacchi ovviamente vertiginosi con evidente difficoltà nel portarli quando si distraeva ("non mi sta guardando nessuno quindi posso camminare anche male").
E' finalmente ora di cena. Quello che io - ma non solo io - avevo capito era: chi vuole mangia, chi non vuole balla. No. Le due cose sono in due momenti diversi.
La sala ha sette tavoli rotondi, e gli invitati si accomodano: la festeggiata passa di tavolo in tavolo dicendo mezze frasi e facendo mezzi sorrisi veramente come se fosse la sposa. Noi formiamo il Tavolo dei Reietti, e ci passiamo una serata non malvagia di chiacchiere e idiozie, cercando di isolarci il più possibile dal contesto.

Se vi aspettate una descrizione di portate portentose, be', non ci sarà: a buffet, piatti di salumi, torta pasqaulina, vitello tonnato e focaccia al formaggio (abbastanza per tutti, ma non in abbondanza. A dir la verità, l'aspetto del buffet era proprio poverello). Poi due primi, sempre a buffet: trofie al pesto e un'orrida pasta al sugo. Inutile dire che continuano a non esserci alcolici (acqua, succo o cocacola?). Così sia. Fine pranzo.
Mentre siamo in coda al buffet degli antipasti come al moody, la festeggiata prende il microfono come se la sala fosse gremita di persone - saremo stati una quarantina, non di più -, ringrazia tutti per la partecipazione e lancia l'ottimo filmato delle sue foto. Su due schermi, scorre mezz'ora della sua vita, con foto atte ad imbarazzare e divertire il pubblico: uahahaha, ti ricordi che bei momenti?
Vi ricordo che tutto ciò è un compleanno dei 18 anni: no, perchè magari l'assenza di alcol e i filmini tipo mrto ve l'avevano fatto dimenticare.
Dopo momenti interminabili arriva la torta, e con essa un calice di spumante a testa. Torta anche buona, ma di dimensioni enormemente esagerate (proprio del tipo mi hanno tirato buca in millemila). Spumante senza brindisi.
Alla fine arriva anche una-ciotola-una di sangria, che io scelgo opportunamente di non prendere e che mi dicono fare schifo/essere orribilmente annacquata. Sempre con sorriso ebete da onori di casa, la festeggiata ci spiega che i suoi le hanno impedito assolutamente di mettere alcolici: "o gli alcolici o la festa in grande: e io cosa potevo scegliere?".
Dopo un lungo summit in bagno per fuggire alla musica sempre più allucinante, decidiamo di andare: salutiamo la festeggiata che sta aprendo i regali - ovviamente molti e molto preziosi - in sordina e ci defiliamo, cambiandoci rapidamente dietro ad una tenda per tornare ad indossare abiti umani.

Questo è quanto.
La noia più mortale.
La muffa più assoluta.
La festa meno divertente della storia.
Io, se i miei 18 anni si aprono con qualcosa del genere, mi impicco nella doccia.
Era una festa di rappresentanza, un debutto in società. Con solo e unicamente i suoi amici. Qual era il senso?
E' da ieri che me lo chiedo.

giovedì 11 settembre 2008

Calendario cantato 2


(Il brano in questione è un altro, ma, come leggerete sotto, non era possibile trovarlo interpretato dallo stesso Victor. Ho scelto allora quest'ottima videoclip moderna. "Vamos por ancho camino", Victor Jara).

Il post sul Cile l'avevo già fatto qualche anno fa, ed è qui.
Nel frattempo, ho trovato l'ultima canzone scritta da Victor Jara.
Nello stadio di Santiago, prima che i militari gli tagliassero le mani e la lingua, "el poeta popular" riuscì a scrivere un'ultima canzone, su di un pezzo di carta che aveva in tasca. Quando i militari lo andarono a prendere per torturarlo e fucilarlo, Victor Jara passò il bigliettino all'uomo che era seduto vicino a lui. Che, a sua volta fucilato, lo passò a chi era vicino a lui, e così via.
La persona che è riuscita ad uscire dallo stadio e a portare il biglietto alla moglie di Victor Jara pensava fosse un falso, perchè non aveva assolutamente visto che il cantante fosse nello stadio. La canzone è questa. Interpreti ce ne sono stati parecchi, primo tra tutti Woody Guthrie (nonchè mio fratello paolino, ma questa è un'altra storia), ma nessuno l'ha mai musicata in lingua originale.

ESTADIO CHILE
(Victor Jara)

Somos cinco mil aquí
en esta pequeña parte la ciudad.
Somos cinco mil.
¿Cuántos somos en total
en las ciudades y en todo el país?
Sólo aquí,
diez mil manos que siembran
y hacen andar las fábricas.
Cuánta humanidad
con hambre, frío, pánico, dolor,
presión moral, terror y locura.

Seis de los nuestros se perdieron
en el espacio de las estrellas.
Uno muerto, un golpeado como jamás creí
se podría golpear a un ser humano.
Los otros cuatro quisieron quitarse
todos los temores,
uno saltando al vacío,
otro golpeándose la cabeza contra un muro
pero todos con la mirada fija en la muerte.
¡Qué espanto produce el rostro del fascismo!
Llevan a cabo sus planes con precisión artera
sin importarles nada.
La sangre para ellos son medallas.
La matanza es un acto de heroísmo.
¿Es este el mundo que creaste, Dios mío?
¿Para esto tus siete días de asombro y de trabajo?
En estas cuatro murallas sólo existe un número
que no progresa.
Que lentamente querrá más la muerte.

Pero de pronto me golpea la consciencia
y veo esta marea sin latido
y veo el pulso de las máquinas
y los militares mostrando su rostro de matrona
llena de dulzura.
¿Y México, Cuba y el mundo?
¡Qué griten esta ignominia!
Somos diez mil manos
menos que no producen.
¿Cuántos somos en toda la patria?
La sangre del compañero Presidente
golpea más fuerte que bombas y metrallas.
Así golpeará nuestro puño nuevamente.

Canto, qué mal me sabes
cuando tengo que cantar espanto.
Espanto como el que vivo
como el que muero, espanto.
De verme entre tantos y tantos
momentos de infinito
en que el silencio y el grito
son las metas de este canto.
Lo que veo nunca vi.
Lo que he sentido y lo que siento
harán brotar el momento...

TRADUZIONE

ESTADIO DE CHILE

Siamo in cinquemila, qui,
In questa piccola parte della città.
Siamo in cinquemila.
Quanti siamo, in totale,
Nelle città di tutto il paese?
Solo qui
Diecimila mani che seminano
E fanno marciare le fabbriche.
Quanta umanità
In preda alla fame, al freddo, alla paura, al dolore,
Alla pressione morale, al terrore, alla pazzia.

Sei dei nostri si son perdi
Nello spazio stellare.
Uno morto, uno colpito come non avevo mai creduto
Si potesse colpire un essere umano.
Gli altri quattro hanno voluto togliersi
Tutte le paure
Uno saltando nel vuoto,
Un altro sbattendosi la testa contro un muro,
Ma tutti con lo sguardo fisso alla morte.
Che spavento fa il volto del fascismo!
Portano a termine i loro piani con precisione professionale
E non gl'importa di nulla.
Il sangue, per loro, son medaglie.
La strage è un atto di eroismo.
È questo il mondo che hai creato, mio Dio?
Per tutto questo i tuoi sette giorni di riposo e di lavoro?
Tra queste quattro mura c'è solo un numero
Che non aumenta.
Che, lentamente, vorrà ancor più la morte.

Ma all'improvviso mi colpisce la coscienza
E vedo questa marea muta
E vedo il pulsare delle macchine
E i militari che mostrano il loro volto di matrona
Pieno di dolcezza.
E il Messico, Cuba e il mondo?
Che urlino questa ignominia!
Siamo diecimila mani
In meno che producono.
Quanti saremo in tutta la patria?
Il sangue del Compagno Presidente
Colpisce più forte che le bombe e le mitraglia.
Così colpirà di nuovo il nostro pugno.

Canto, che cattivo sapore hai
Quando devo cantar la paura.
Paura come quella che vivo,
Come quella che muoio, paura.
Di vedermi fra tanti e tanti
momenti di infinito
in cui il silenzio e il grido
sono i fini di questo canto.
Ciò che ho sentito e che sento
Farà sbocciare il momento.

domenica 7 settembre 2008

Un calendario cantato 1


Dopo che il Chimico mi ha mandato un messaggio in cui esaltava l'ottimo brano "Ero un consumatore" (di cui metto il link qui, ma che non trascrivo per magnanimità), ho deciso di mettere in pratica un'idea che già da un po' mi frullava nella mente.
Si tratta, in pratica, di una specie di calendario sonoro: ad ogni data possibile, un collegamento con una canzone popolare/di protesta.
Inizio simbolicamente oggi, con un brano che non è né popolare né di protesta, ma troppo troppo bello per stare a fare gli schizzinosi.

SEI MINUTI ALL'ALBA
(Fo-Jannacci)

Sei minuti all'alba
el gh'è gnanca ciar,
sei minuti all'alba,
il prete è pronto già.
L'è giamò mes'ura
ch'el va drè a parlà:
«Gliel'ho detto, padre, debun
mi hu giamò pregà».

Nella cella accanto
canten na cansun:
«Sì, ma non è il momento,
un pu' d'educasiun!».
Mi anca piangiarìa,
il groppo è pronto già;
piangere, d'accordo, e perché:
mi han da fucilà.

Vott setember sunt scapà,
hu finì de fa el suldà,
al paes mi sunt turnà,
disertore m'han ciamà.
De sul treno caregà,
n'altra volta sunt scapà,
in montagna sono andato, ma l'altr'er
cui ribelli m'han ciapà.

Entra un ufficiale,
mi offre da fumar:
«Grazie, ma non fumo
prima di mangiar».
Fa la faccia offesa,
mi tocca di accettar,
le manette ai polsi son già,
quei lì van a drè a cantà.

E strascino i piedi
e mi sento mal;
sei minuti all'alba,
Dio, cume l'è ciar.
Tocca farsi forza,
ci vuole un bel final,
dai, allunga il passo, perché
ci vuole dignità.

Vott setember sunt scapà,
hu finì de fa el suldà,
al paes mi sunt turnà,
disertore m'han ciamà.
De sul treno caregà,
n'altra volta sunt scapà,
in montagna sono andato, ma l'altr'er
cui ribelli m'han ciapà.

(trascrizione alla buona, assolutamente priva dei simboli fonetici corretti)



TRADUZIONE
(ma è vivamente consigliata la lettura in dialetto, che è comprensibile e mille volte più bella):

Sei minuti all'alba
e non è ancora chiaro,
sei minuti all'alba
Il prete è pronto già.
È già mezz'ora
che sta parlando.
«Gliel'ho detto, padre, davvero,
ho già pregato».

Nella cella accanto
cantano una canzone.
«Sì, ma non è il momento
un po' d'educazione!»
Io addirittura piangerei
il groppo è pronto già;
piangere d'accordo, e perché?
Mi devono fucilare.

L'otto settembre sono scappato
ho smesso di fare il soldato,
son tornato al paese
mi han chiamato disertore.
Caricato su di un treno
son scappato un'altra volta;
in montagna sono andato, ma l'altro ieri
m'hanno preso coi ribelli.

Entra un ufficiale
mi offre da fumare:
«Grazie, ma non fumo
prima di mangiar».
Fa la faccia offesa,
mi tocca di accettar,
le manette sono già ai polsi,
e quelli continuano a cantare.

E trascino i piedi
e mi sento male;
sei minuti all'alba,
Dio com'è chiaro!
Tocca farsi forza
ci vuole un bel finale;
dai allunga il passo, perché
ci vuole dignità.

L'otto settembre sono scappato
ho smesso di fare il soldato,
son tornato al paese
mi han chiamato disertore.
Caricato su di un treno
son scappato un'altra volta;
in montagna sono andato, ma l'altro ieri
m'hanno preso coi ribelli.

Ringrazio l'ottimo sito Canzoni contro la guerra che mi ha evitato di dovermi trascrivere tutto il testo.